Perché si è come si è, perché si diventa ciò che si diventa e perché si ha (o si crede di avere) proprio i sogni che si hanno. Queste sono solamente alcune delle tematiche presenti in Soul, l’ultimo cortometraggio di animazione della Pixar.
Il film, uscito su Disney+ nel giorno di Natale di queste anomale festività del 2020 e diretto da Pete Docter, è l’ideale proseguo di argomenti complessi e maturi che il regista ha voluto già affrontare con Up e con Inside Out. La Pixar Animation anche in questo caso decide di andarci giù pesante, facendo dannatamente bene, e riuscendo a creare un mito contemporaneo a più livelli di lettura, filosofici e psicologici, con un personaggio in equilibrio instabile tra talento, vocazione, ostinazione e distruzione.
Il protagonista, Joe Gardner, è un insegnante di musica di una scuola media di New York dalla vita nel complesso non del tutto appagante ma con un grande sogno nel cassetto: quello di suonare nel miglior jazz club della Grande Mela, l’Half Note. Ha lunghe dita da pianista, è alto e allampanato, goffo e sensibile. Ha già un lavoro ma non gli basta, perché non si sente né rispettato né soddisfatto. Però ha un sogno per il quale investe tempo e soldi, aspettative e i molteplici aspetti della propria esistenza, nel tentativo di tenerlo sempre vivo con la speranza di raggiungerlo.
Il giorno in cui riceve la positiva notizia della conferma a tempo pieno presso la scuola dove insegna, rivece anche la “proposta della vita” da parte di Dorothea Williams, una jazzista affermata nel panorama musicale newyorkese, con la quale avrebbe potuto finalmente esibirsi proprio nel locale tanto agognato. Di tutto ciò si intuisce già la crepa, la scissione all’interno della coscienza di un uomo come Joe (ma che potrebbe benissimo essere uno di noi) tra la scelta di un lavoro sicuro ma non desiderato né gratificante e l’opzione di una vita insicura ma che può perpetrare e finalmente portare a compimento il sogno di un’intera esistenza.
Quella che ci viene descritta è una situazione malinconicamente familiare in quanto ci porta a riconoscere e ad afferrare la natura ambigua dei propri sogni. Sappiamo perfettamente cosa si prova perché sono situazioni molto comuni che portano a decidere tra opzioni che spesso si escludono vicendevolmente e necessitano quasi sempre di una dolorosa scelta e di una conseguente rinuncia.
The lost soul of Joe
Uscendo dall’Half Note, che nella notazione musicale corrisponde alla minima (o metà), una nota musicale eseguita con la durata pari alla metà del valore dell’intero, e che simbolicamente quasi rimanda a una vita non pienamente vissuta e realizzata nella sua interezza, in preda all’entusiamo, all’euforia e alla disattenzione, a un certo punto accade l’inaspetatto. Joe muore e la sua anima finisce intrappolata in uno spazio-tempo ad alto tasso di simbolismo tutto da scoprire: the great beyond e the great before.
Ci troviamo quindi in questo universo bizzarro in cui i creatori riescono nell’impresa di visualizzare l’impercettibile, un mondo ultraterreno dotato di una fisicità differente da quella ordinaria e corpi costituiti da forme base e spettri di luminosità. Dal punto di vista del concept design, infatti, il team artistico della Pixar compie un piccolo capolavoro creativo. Rendere graficamente idee complesse e astratte degli archetipi che interagiscono nel mondo delle anime è complicato e la maniera estrosamente semplice in cui ci riescono è affascinante. La bidimensionalità dei Jerry, per esempio, è resa da un riuscito mix tra l’icona Finder dei Mac, una forma umana di Picasso e una Linea di Osvaldo Cavandoli.
Qui, esplorando l’Altro-mondo e l’Ante-mondo, un piano della realtà dove le anime si preparano e sviluppano la personalità, gli interessi e le manie prima di nascere e gettarsi nella mischia, incontra 22, una che nonostante il moltissimo tempo a disposizione non è ancora riuscita a cogliere quella scintilla necessaria per afferare il complesso fascino dell’esistenza umana, un’anima ancora in potenza che si crede inutile e inadeguata e che quasi prova una sottile gioia nel proprio fallimento. Tutto questo malgrado i numerosi mentori illustri che hanno provato inutilmente ad aiutarla a nascere fra i quali Jung, Madre Teresa di Calcutta, Abraham Lincoln e Copernico.
Avviene un incontro tra un’anima che non vuole vivere con un’anima che non vuole morire.
Nel cercare di riprendere in mano la propria esistenza senza arrendersi al destino e alla morte, Joe (e 22) ripiombano nella New York reale per trovare quel senso profondo della vita e rispondere così alla domanda principale del film: qual è la propria chiamata? Cosa si è chiamati a fare nella propria vita? Qual è il sacro fuoco della propria esistenza e qual è la propria Scintilla (Spark) in grado di dare pieno significato al tutto?
Questo concetto, pilastro fondamentale di psicologia archetipica, è quello più palese del film.
Dal Mito di Er alla “fulminazione” di Hillmann
Il rimando più evedente di Soul è al Mito di Er, presente nella Repubblica del filosofo greco Platone, secondo cui prima della nascita ogni anima sceglie un’immagine, un idea da riproporre sulla Terra, e riceve un compagno, un daimon, unico e specifico per ciascuno di noi.
Platone nel mito descrive un mondo intermedio in cui le anime, dopo aver ottenuto un responso sulla vita passata, scelgono la vita futura in cui incarnarsi. Nascendo però dimenticano tutto questo credendo di essere vuote ed è qui che entra in gioco la responsabilità personale, il grande salto compiuto da Platone nel reiventare il mito classico, togliendo la sorte degli umani dalle mani del caso o degli dei e mettendola in quelle dell’individuo.
James Hillman, psicologo americano contemporeno, negli anni 90 del novecento ha recuperato questa idea classica (Platonica e orfico-pitagorica) e ha sviluppato la cosiddetta teoria della ghianda. Secondo questa teoria ciascuno di noi è venuto al mondo con un’immagine scelta prima di nascere e questa idea ci definisce: quando la si riconosce avviene una sorta di illuminazione che colpisce proprio come un fulmine.
C’è un prima e un dopo la “fulminazione” e una volta colti da questo evento, all’improvviso, si ha una maggiore coscienza di sé stessi.
Il senso della vita, secondo Joe
Un adolescente che vede Soul farebbe fatica a cogliere certi aspetti presenti all’interno della vicenda. Quando si hanno da giocare ancora tutte le proprie carte, quando si vive ancora nello sconfinato mondo delle possibilità, non si può conoscere il peso della frustrazione, dell’unidirezionalità delle proprie decisioni e dell’insoddisfazione di alcuni quotidiani compromessi. La vità ha una propria termodinamicità con la quale non si può giocare e in tutto questo c’è una forte componente data dalle aspettative sociali, dai sogni e dalle proprie ambizioni.
Soul fa riflettere proprio sulle convinzioni attraverso cui portiamo avanti giorno dopo giorno lo scopo che crediamo essere preponderante nella nostra vita. Quella scintilla o vocazione o innesco o fulminazione che per qualcuno può essere la musica (per altri la pittura o il calcio o i francobolli o la corsa delle lumache, qualsiasi cosa insomma) e che dà il significato alla nostra esistenza. Ma attenzione.
Il Talento non è la Vocazione: ciò che si sa far bene – suonare, giocare a basket, ricamare etc – non è necessariamente quello che fa star bene: si vive con un motivo e non per un motivo. Probabilmente c’è una Scintilla per tutti ma il senso della vita è da trovare altrove e si deve far attenzione a non confondersi e a non illudersi che l’espressione del proprio talento corrisponda al senso della propria vita.
Joe crede che la propria vita debba sempre andare avanti verso l’obiettivo prefissato. Pensa che se si applica con rigore e dedizione, arriva all’intento, raggiunge il proprio sogno e rimane soddisfatto. Solo allora la vita acquisisce il proprio senso, solo nel raggiungimento di quell’unico risultato a lungo agognato. Ma non può e non deve essere necessariamente così.
Il film offre una visione problematica proprio di questo aspetto, mettendone in crisi le fondamenta. La passione e la motivazione possono far crescere gli esseri umani come individui ma anche distruggere tutto ciò che sta attorno a loro. Hanno connotati senza dubbio positivi ma possiedono un lato oscuro. Sono esclusivi ovvero impediscono di cogliere la vita nella propria interezza, conducono alla miopia in quanto non permettono di realizzarsi anche in altre maniera.
La realizzazione di sé non passa solo attraverso l’autorealizzazione. I sogni, talvolta, sanno essere molto egoisti ed è compito dell’individuo bilanciarne e smussarne i lati, se necessario. Infatti, fino a che punto può arrivare la spinta di un sogno prima di diventare una deleteria ossessione? E fino a che punto la società può giocare su questi aspetti esaltandone quelli più trionfalistici?
Il raggiungimento di un obiettivo non può essere un metro di valutazione di un’intera esistenza.
Music is all i think about. From the moment i wake up in the morning…to the moment i fall asleep at night. I was born to play. It’s my reason for living.
Joe Gardner
Questa citazione è una lucida dichiarazione d’amore nei confonti della musica o una cieca invocazione verso un’arte per la quale, forse, non si è nemmeno così portati? Sapere la risposta può essere molto doloroso. La frase, infatti, racchiude in sé molto della vocazione e delle caratteristiche della personalità di Joe, un uomo che ha creduto di dover inseguire il proprio sogno di diventare musicista rischiando di tralasciare i molteplici aspetti della vita, solo apparentemente più semplici e banali.
Camminare durante una giornata di sole all’aperto, una tazza di caffé al bar, un pomeriggio di riposo in casa, sono tutte esperienze complementari che, alla pari, donano quel senso di unicità alla sua esistenza (o alla nostra, è indifferente, il messaggio è universale). Questi sono tutti aspetti senza i quali anche la soddisfazione di raggiungere il sogno di suonare all’Half Note non ha più senso. La pienezza è un gioco di incastri molto delicato.
La New York di Joe
Joe Gardner è in assoluto il primo protagonista afroamericano di una storia Disney/Pixar e questa è di per sé già una gran bella notizia.
Joe, tuttavia, non è solo questo. Nello specifico è un musicista afroamericano di New York che abita nel Queens e insegna in una scuola pubblica ed è quindi un portatore sano di elementi interculturali. Reca con sé una serie di valori ed esperienze che sono proprie della comunità di cui fa parte e con cui ha a che fare ogni giorno. Joe è parte integrante del proprio quartiere, ha legami con la bottega di sartoria della madre Libbie e frequenta regolarmente il barbiere dove si intrattiene. Il jazz e la musica, inoltre, fanno parte del patrimonio emotivo e culturare di Joe e sono la molla che lo spingono ad andare avanti nonostante le insoddisfazioni ma sono anche ciò che lo distolgono dallo sguardo d’insieme, come capisce anche lui stesso alla fine del film.
La musica (come la poesia, lo sport, il collezionismo, etc), infatti, è tante cose: espressione, appagamento, terapia e molto altro. È una connessione bilanciata di istanze storico-culturali, creative e fisiologiche sempre in bilico tra improvvisazione e composizione. Una forma d’arte e d’amore che è libera di esprimersi a qualsiasi livello. Certo non serve essere numeri uno per sentirsene appagati.
L’insegnamento di Soul può essere riassunto in queste poche righe: si può avere una passione e un’elezione ma è il modo in cui si è in grado di armonizzare questa vocazione con l’avventura primaria che è la vita che ci qualifica a tutto tondo come esseri umani completi e di valore.
Ricordiamocelo. Noi non siamo solamente ciò che facciamo e non possiamo permetterci di fossilizzarci sulla ricerca di un senso donato unicamente da quello che crediamo essere un talento. Lo scopo non è la scintilla.